L’Europa, L’Asia e la crisi
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Allo scatenarsi dell’attacco in Irak, nel marzo del 2003, valutammo che la vera posta di quel conflitto era il tempo. Gli Stati Uniti giocavano d’anticipo su Asia ed Europa, presidiando nel Golfo Persico un’arteria energetica vitale per l’economia mondiale. Gli Stati Uniti hanno pagato nella guerra un prezzo esorbitante rispetto alle previsioni, sino all’impasse strategica e a profonde lacerazioni politiche interne. Le correnti che hanno forzate le relazioni atlantiche sono state ridimensionate, eppure la corsa presidenziale mostra che oggi nessuno intende rinunciare al vantaggio capitale di una presenza di lungo termine in Irak. L’Europa ha pagato la sua divisione con ritardi e incertezze che hanno favorito lo scacco della Costituzione, ma il Trattato di Lisbona ne ha salvato il nocciolo istituzionale. La BCE, la banca centrale, è emersa come l’ancoraggio più forte dell’Unione Europea. La Russia è tornata in campo sfruttando la carta energetica. Il Giappone oscilla attorno ad ambizioni internazionali nuovamente frustrate dallo squilibrio interno. L’India ha tentato un gioco più mobile tra Stati Uniti e Cina, ma la caotica crisi del Pakistan minaccia di incatenarla alle tensioni del Subcontinente. L’evento che più ha da rivelare sui tempi della contesa è invece un fatto nuovo: la crisi del credito che va coinvolgendo le relazioni globali. Anche qui, come fu per la guerra, hanno meno rilievo i tempi immediati, su cui si esercitano invece le previsioni per il ciclo americano e mondiale in vista dei mesi a venire. Sono decisivi i tempi lunghi del confronto tra le potenze, dove appunto la crisi è una spia del declino degli USA e dell’interruzione dell’Asia. In questo senso, se la guerra fu il gioco d’anticipo americano, il tentativo di prendere tempo per gestire il declino, la crisi è la conferma che il tempo era e resta a vantaggio dell’imperialismo cinese. Oggi la crisi mostra i piedi d’argilla dell’ideologia dominante, se i grandi giornalisti descrivono “economisti smarriti” e se il caos capitalistico è squadernato proprio dalle centrali finanziarie dell’imperialismo, incapaci di farsi credito l’una con l’altra. Colpisce però la naturale condiscendenza con cui massimi funzionari del capitale, alla FED o alla BCE, trattano della nostra classe quando è in questione il computo dei fattori di produzione. L’immagine della globalizzazione era il trionfo del capitale, ma qui si scopre dalle loro stesse parole quanto il motore dell’accumulazione sia nelle centinaia di milioni di proprietari trascinati in Asia nell’economia mondiale, o nelle decine di milioni dell’Est Europa integrati nel mercato europeo. La crisi mostra allora quanto i rapporti di forza tra le classi siano anch’essi trasformati dallo sviluppo imperialista. Nei loro calcoli, quei salariati appaiono come mere quantità, funzionali al dare e all’avere dei flussi di capitali e di merci. Nella contabilità di classe, sono le forze del proletariato mondiale della futura battaglia rivoluzionaria. (dall’introduzione)
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